sabato 3 aprile 2010

Lettera alla redazione

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di un lettore a proposito dei temi trattati dall'articolo del prof. Salvatore Sicuro apparso sul numero 8.

Spett.le Redazione,
premetto di non conoscere i dialetti greci dell’Italia Meridionale e che le radici della mia famiglia non hanno mai avuto alcun legame con ceppi dell’Italia del Sud.
Il mio interesse per i dialetti greci della Calabria e del Salento nasce dal fascino che il greco antico da sempre esercita sulla mia sensibilità fin dai lontani anni del ginnasio. In particolare, non essendo mai stato convinto circa la validità della pronuncia “scolastica” del greco antico, da qualche tempo mi sto dedicando al problema della pronuncia. Di qui, il mio accostamento ai dialetti greci dell’Italia Meridionale, dacché con ogni evidenza derivano direttamente dalle parlate delle colonie greche fondate alcuni secoli prima di Cristo. Infatti, chi contesta detta derivazione antica, chiamando in causa l’espansionismo bizantino, o si rifiuta di rilevare l’evidenza o non possiede la preparazione necessaria per comprenderla. Mi trovo, pertanto, completamente d’accordo con il glottologo Gerhard Rohls, il quale, oltre a non avere alcun motivo personale per essere parziale, è stato di gran lunga il maggior studioso dei dialetti greco-italici ed ha contribuito ad una loro conoscenza meno approssimativa come nessun altro. Gerhard Rohlfs, diversamente da molti suoi colleghi, piuttosto che fantasticare e farneticare su una lingua che non è mai esistita, né mai venne parlata, come l’indoeuropeo, preferì immergersi in realtà linguistiche vere, non temendone lo studio continuo, indefesso e guidato da una sensibilità ed un’intelligenza superiori.
Tutto ciò premesso, vorrei fare alcune considerazioni a proposito della sorprendente lettera del prof. Salvatore Sicuro, rinunciando in questa sede ad argomentare su tutti i problemi ch’egli lascia affiorare, per limitarmi solo ad alcuni aspetti. In breve, il prof. Sicuro sembra voler semplificare il problema di una qualsivoglia lingua al numero dei vocaboli.
E, quanto al numero dei vocaboli, mi chiedo donde egli abbia tratto il numero di 170.000, quale patrimonio lessicale del greco moderno o neogreco. Pare opportuno precisare che in greco antico i verbi, escluse le forme derivate e dialettali, sono poco meno di 30.000, mentre i sostantivi e gli aggettivi, sempre escluse le forme derivate e dialettali, ammontano a poco più di 100.000, per un totale di circa 130.000 (un patrimonio lessicale tra i più estesi). Il numero dei lemmi di un buon dizionario di greco moderno, quindi comprensivo delle forme derivate e dialettali, dei vocaboli mutuati dal turco e di quelli non appartenenti al greco antico, non supera il numero di 70.000, di cui oltre i due terzi derivano dal lessico greco antico (infatti un vocabolo moderno come τηλέφωνο è in realtà un composto di due vocaboli antichi). Se poi si considera che solo le persone colte riescono ad utilizzarne fino a 20.000 e che la grande massa non ne impiega più di 8000, il numero citato dal prof. Sicuro lascia per lo meno perplessi.
Ma, accantonato il numero dei vocaboli, va sottolineato che una lingua non è solo il numero dei vocaboli, che in realtà è il dato meno caratterizzante. Ciò che differenzia una lingua da un’altra, ciò che costituisce l’unica vera difficoltà per chi non la conosce, non è dato dal numero di vocaboli ma dalla struttura morfologica e sintattica e dalla cosiddetta sintassi stilistica, in altre parole dal modo di formulare il pensiero. Basterà un semplicissimo esempio per chiarire il concetto: se per tradurre in inglese la semplice domanda “quanti anni hai?”, sostituisco i vocaboli italiani con i corrispondenti inglesi, ottengo “how many years have?”, che risulterà assolutamente incomprensibile a qualsiasi anglofono!
Per i greci già ventenni negli anni Settanta, di media istruzione, un passo di Platone risultava incomprensibile; tuttavia, molti dei vocaboli erano noti. Era come se avessero a disposizione una Rolls-Royce smontata, ossia un lessico tra i più ricchi, che però non erano in grado di assemblare. (I ventenni greci di oggi si trovano, dopo lo scempio dell’ortografia e la messa al bando della καθαρεύσα in una condizione assai peggiore.) Personalmente, preferisco chi, avendo a disposizione una semplice Fiat 500, sappia riassemblarla e fare così molta più strada…
Non dico che l’apprendimento del greco moderno debba essere stigmatizzato; dico piuttosto che può costituire solo un termine di confronto affinché vengano evidenziate le differenze. I dialetti greco-italici possiedono tratti caratteristici che il greco moderno non ha più da secoli, come ad es. la vitalità del modo infinito. Avvisi in luoghi pubblici quali ἀπαγορεύεται καπνίζειν, oggi forse non più leggibili, erano in realtà paragonabili all’esposizione di una mummia.
Il prof. Sicuro cita la voce ἀρτοπωλεῖο quale degna alternativa a ‘furno’. Ma che cos’ha che non va φοῦρνο? Anche in Grecia, parlando, si usa φοῦρνο, ψωμάδικο, non certo ἀρτοπωλεῖο, leggibile forse ancora su qualche insegna. (In ogni caso in greco antico si direbbe ἀρτοπώλιον). Ad esempio, in Grecia ‘armadio’ si dice ντουλάπα, un orrendo vocabolo turco che, tuttavia, il corrispondente greco ἱματιοθήκη non è riuscito a soppiantare. Quanto ad ‘auguri’ e ad ‘augurare’ non mi risulta che in neogreco esistano voci propriamente equivalenti, bensì espressioni più o meno corrispondenti, ma non equiparabili, a seconda delle occasioni.
Di contro, questo povero, miserevole vocabolario di soli 6000 vocaboli, contiene tra le altre una voce, ἀσκλούνι, la quale, comparata ad un passaggio di Aristotele che cita Omero, ha permesso di sollevare un velo sul vero significato di χλούνης, già perduto nell’antichità (cf. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, nouvelle éd., Paris 1999, p. 1264, s.v.). Forse per il prof. Sicuro si tratterà di una quisquilia; per me, invece, è la testimonianza di un tesoro da scoprire. Occorrerebbe sensibilizzare in primo luogo gli studenti calabresi e pugliesi del liceo classico affinché si sentano spronati ed invogliati a cercare le proprie radici che non appartengono a nessun altro, se non a loro; metterle a confronto con il greco scolastico (?!); parlare nel loro dialetto con gli anziani ancora residenti nei paesini meno raggiungibili; un po’ come si fa quando si va ad un mercatino dell’antiquariato: sono soprattutto pieni di patacche, ma qualche volte si trovano oggetti unici, nel nostro caso vocaboli, espressioni non ancora registrate…
Nessun albero fruttifica senza radici e persino un albero abbattuto può rinascere dalle sue radici; lo stesso vale per l’uomo e la sua cultura, che non è la scuola, ma l’ambiente naturale dov’è nato, i suoi antenati, la sua lingua, le sue tradizioni. Si è mai visto un albero che si distrugge da sé le sue radici?
Scusate se mi sono dilungato un po’. Mi fermo qui, altrimenti mi ritrovo a pagina 100 da solo…!?!?!
Complimenti per la immediata, garbata ma ferma risposta al prof. Sicuro.

Con i migliori beneauguranti saluti,

Franco L. Viero
Dorno, 29 ottobre 2009

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