domenica 16 agosto 2009

I frutti rossi dell'estate (Ta rotinà kalocernà)

Ogni tanto sentiamo alla televisione che per stare meglio sarebbe bene fare attenzione a quello che mangiamo, e questo certamente è vero.
Una delle cose più risentite è che ogni frutto colorato di rosso ci fa bene. Questo perché i frutti rossi contengono certe molecole che si chiamano “carotenoidi”, “polifenoli”,“flavonoidi” e altre. Molti scienziati credono che queste facciano bene perché proteggono il nostro organismo dal danno causato dallo stress ossidativo, che è alla base di molte malattie come l’aterosclerosi, il cancro, il diabete e anche lo stesso invecchiamento.
Dobbiamo dire che questo è stato dimostrato in laboratorio, ancora sono poche le prove fatte “in vivo” (sulle persone).
L’estate riempie di rosso i campi e i pochi boschi rimasti nelle nostre terre, vediamo dunque cosa possiamo mangiare per stare bene.
Forse fra i frutti rossi i più famosi sono le ciliegie, le fragole e i frutti di bosco come le more di rovo. Fra queste la fragola è quella che è più ricca di molecole che possono proteggere dal cancro e mantenere aperte le arterie dove scorre il sangue.
Peccato che oggi quelle che si vendono sono spesso anche piene di veleni che mettono per farle crescere. Meglio mangiare quelle che vengono dall’agricoltura biologica o addirittura coltivarle noi stessi.
Bel colore hanno anche i pomodori ed i meloni, anche i cocomeri (meloni saraceni). Questi sono ricchi di “licopene”, un’altra molecola che protegge dallo stress ossidativo e che viene assorbita bene dal nostro intestino, meglio se viene cotto il frutto (come succede con la salsa di pomodoro). È uscito uno studio scientifico che ha dimostrato come il licopene possa proteggere dal cancro della prostata.
Giovamento può venire anche dai peperoni, quelli piccanti contengono “capsaicina”, che dicono possa aiutare a bruciare i grassi. Sembra anche che possa essere di aiuto nella terapia del dolore come quello del fuoco di Sant’Antonio.
E dopo l’estate? Alcuni colori restano anche d’inverno: le arance, le mele fanno molto bene, e poi bisogna ricordare che anche le verdure che non sono colorate fanno bene: sappiamo che i cavoli proteggono dal cancro.Infine non dimenticate che non basta mangiare rosso, chi fuma perde tutti i vantaggi che gli possono venire dai frutti rossi!

Francesco Penza

venerdì 14 agosto 2009

Macinato Grosso (Xrondò alemmèno)

C’era un volta sotto (verso) Borgagne una famiglia che abitava in una masseria denominata “I Santi”. Questa famiglia proveniva da Martano ed erano molti anni che risiedeva in quella masseria.
In quei tempi malte famiglie andavano nelle masserie per aiutare i massari. Restavano lì tutta l’estate: raccoglievano i cereali e tutte le provviste. Allorché cominciava ottobre si ritiravano nel loro paese.
Uno di questi prestatori d’opera aveva un figlio che era un poco tonto e si era innamorato della figlia del massaro. E con la scusa di aiutare nella masseria andava sempre in casa di lei. La madre di lui si era accorta di questo fatto. Una volta quest'ultima aveva fatto del pane in casa e per tenere buona la massaia chiamò il figlio e gli disse: Porta questo pane alla massaia e quando entri dì “buongiorno”. Suo padre, che era nelle vicinanze, sentì il discorso e volendo anche lui far parte della faccenda gli disse: e dì “il pane te lo manda mio padre”.
Il Giovanotto si recò nella masseria e trovo la massaia che tesseva al telaio, entrò e le disse: buongiorno,il pezzo di pane te lo manda mio padre.
La figlia della massaia lo guardò negli occhi e disse: quanto è grossolano (stupido)!
Il giovanotto sentendo così, rispose: l’asina non ne poteva più (a girare la macina) ed è venuto macinato grosso. “come sei lungo, come sei lungo! (stupido) gli disse la giovincella. “che proprio questa mattina ho indossato i pantaloni di mio padre”.
Questa è una delle tante che sappiamo, come quella delle tre belle figliuole, una più bella dalle altre,
ma questo è un altro racconto,
Saluti da Leonardo Antonio Giannuzzi da Martano

Il nuovo museo dell'Acropoli

L'Acropoli di Atene ha subito diverse distruzioni e predazioni di sculture che si trovano oggi nei più grandi musei del mondo come il British Museum di Londra e il Louvre di Parigi.

Le sculture che sono rimaste erano stivate da molti anni in un museo allestito sulla roccia dell' Acropoli e non erano esposte. Si è pertanto deciso di costruire un nuovo museo di fronte all'Acropoli ed esporci gli antichi tesori.

Il nuovo museo dell'Acropoli occupa complessivamente 23.000 mq con 14.000 mq di superficie espositiva. È stato progettato dall'equipe di Bernard Tschumi di New York e di Michalis Fotiadis di Atene con la collaborazione di sessanta gruppi di consiglieri speciali e ingegneri in modo che risulti antisismico, confortevole con buon isolamento termico e acustico.

Per esempio, la grande sala di vetro del Partenone con vista diretta sulla Roccia Santa e sul tempio di Atena, è in realtà un "camino di vetro" che filtra le radiazioni nocive e sfrutta la luce naturale. Ha inoltre una funzione isolante e climatizzante. Con una temperatura esterna di 40 °C la sala si trova a 24 °C.

Questa non è l'unica novità del nuovo museo che sfrutta la tecnologia moderna. È stato progettato in modo che una famiglia possa trascorrerci una giornata, e che le persone di ogni età siano soddisfatte. Così, oltre le sale espositive, sono presenti due snack bar, un negozio di regali, un ristorante, un anfiteatro e una sala per le mostre temporanee.

I solai sono di vetro e sono usati in modo da ottenere una continuità ottica dalla sala del Partenone in alto fino agli scavi di 2.500 mq nel sottosuolo. Hanno 5cm di spessore e combinano resistenza, antiscivolamento e isolamento termico. La progettazione antisismica permette al museo di resistere ad un sisma di 10 gradi sulla scala Richter. Le 92 colonne di sostegno poggiano su altrettante "basi a pendolo rovesciato" cioè su due costruzioni metalliche di 1,2 m di diametro che sembrano due piatti concavi con superfici ben levigate per assicurare il minimo di attrito. In caso di terremoto, lo slittamento si effettua tra questi due piatti che, vista la loro forma, riprendono la loro posizione dopo la scossa. Ogni base è stata progettata separatamente perché ogni colonna presenta momenti statici e compressioni differenti. Sono state costruite in Germania e verificate in America.

Il guscio della sala del Partenone è autoportante, strutturato senza telaio e senza riflessi. È costruito in vetro con bassi tassi di ferro in modo da non presentare colorazione verde e che la luce entri nitida permettendo una vista chiara verso l'esterno e specialmente verso l'Acropoli.

Il camino di vetro della sala del Partenone è composto da due pareti distante di 0,7 m tra di loro. Sul guscio esterno si trovano alcune macchie serigrafiche, per aumentare l'ombreggiatura e diminuire l'appannamento; c'è anche uno strato ad alto rendimento che protegge dalle radiazioni infrarosse. Il guscio interno pende a 2,5 m dal pavimento. Alla base della vetrata si forma una panchina perimetrica che fa anche da condotto di climatizzazione da dove fuoriesce aria gelida. L'aria, salendo tra le due "pareti" di vetro verso l'apertura del contro-soffitto e degli apparecchi di condizionamento, si scalda naturalmente.

Per diminuire gli echi che stancano i visitatori, specialmente lungo la grande rampa della salita pedonale di 12 m di altezza, l'assorbente acustico è posizionato dietro le pareti verticali di cemento precompresso forato in modo che la voce, di una guida per esempio, non provochi eco e che risulti netta.

Questa è solo una semplice descrizione della costruzione del nuovo museo dell'Acropoli costruito realmente secondo una tecnologia innovativa. Si trovano esposte lì tutte le antichità trovate sull'Acropoli. Siate i benvenuti per vederlo da vicino e ammirare le realizzazioni dei nostri antichi antenati e sentirvene orgogliosi.

Iannis Papadimitriou

Mi è venuta voglia di sentire... parole griche

Mi presento come una giovane studentessa di 24 anni.
Un giorno ho ricevuto una copia di questa rivista e l’ho letta con tanto interesse. Mi è piaciuta molto perché parla di tutto, ma soprattutto mi è piaciuta l’idea di raccontare brevi storie riguardanti tutto ciò che una volta erano le tradizioni del nostro paese, del nostro territorio. In fondo il griko non deve essere visto come una lingua solamente parlata, ma anche come una tradizione molto antica.Il mio primo contatto con il griko nasce praticamente dal mio primo anno di vita. Le mie prime parole pronunziate furono nanni e nanna. È da qui che è nato il mio cammino verso un mare immenso di termini e parole che mi ha permesso di conoscere questa lingua. È iniziato tutto come un gioco, ero una bambina molto loquace e amavo ripetere qualsiasi cosa mi dicessero.
Sono stati proprio i miei nonni a trasmettermi l’amore per questa lingua, tanto che questo amore mi ha portato a diplomarmi persino in greco moderno.
Tempo fa ho deciso di fare una passeggiata per le vie di Martano dove ero solita percorrere da piccola, a braccetto con mio nonno, il quale conosceva praticamente tutti gli anziani che parlavano griko. Ho sentito quest’esigenza perché ero curiosa di sapere se a distanza di anni ci fosse ancora nell’aria qualche parola di griko trasportata nel paese dal vento. Le mie speranze erano ben poche perché molti anziani purtroppo sono venuti a mancare e molti di loro magari stanno poco bene. Ma decisa ho intrapreso il mio “viaggio”. Con stupore e con immensa gioia da lontano sono riuscita a sentire parole grike. Mi sono permessa di avvicinarmi per salutarli e parlare un pochino con loro. A distanza di anni sono rimasti senza parole a sentire parlare “questa lingua” da una ragazza giovane. In effetti, l’ultima volta parlavo il griko come una bimba che aveva paura di relazionarsi es esprimersi in questa lingua. Questa cosa da un lato mi ha fatto sorridere, dall’altro mi ha fatto pensare al fatto che sono pochi a sapere parlare così perfettamente il griko come gli anziani. Loro mi hanno pregata e mi hanno detto: “Porta avanti il griko, noi siamo vecchi e le forze non le abbiamo più, non ce la facciamo, ma ci piacerebbe che la nostra cultura ed il nostro sudore di un duro lavoro effettuato potesse andare avanti e rivivere giorno per giorno”.
Ci sono stati già veri articoli sull’importanza di portare avanti il griko, lo so, infatti spero di non annoiarvi ma semplicemente di proporre una mia idea, che magari può essere sbagliata, ma ci voglio provare.
Sono persone molto grandi di età che conoscono solo le mura di casa loro ormai, sono orgogliose di sapere parlare il griko, ma si sentono indifese perché ritengono che la società di oggi non conosca più l’amore di una volta e i valori della famiglia. Molti di loro mi hanno raccontato che hanno sacrificato la loro vita per i figli, ma che per forza di cose sono rimasti soli o sono abbandonati a loro stessi senza affetti al loro fianco. Delle volte si sentono un peso per la società e per la famiglia. È proprio questo che mi ha spinto a scegliere di pubblicare questo articolo, ripetendomi nel trattare l’argomento.
Se noi li ringraziassimo? Perché è anche grazie a loro che noi ora viviamo in una società così modernizzata e che abbiamo imparato a vivere.
Molti genitori di oggi ritengono che imparare un’altra lingua come il griko sia uno stress inutile per il proprio figlio. E se invece vedeste il griko non come una lingua inutile e vecchia ma come una cultura che possa aiutare a far unire tanti bambini? Magari proprio insegnando il griko con attività ludiche?
È quello che ho percepito negli occhi di queste persone che nella vita hanno sofferto e fatto sacrifici per noi. Non credo che il griko insegnato in maniera divertente possa rovinare i più piccoli o i ragazzi. È una lingua che ci appartiene e che hanno creato i nostri bisnonni e trisavoli. Servirebbe soprattutto per i bimbi che hanno difficoltà a relazionarsi con altri ed esprimere meglio le sensazioni e la loro voglia di stare in compagnia. E chissà, magari un motivo per voi genitori e nonni per avere un’oretta in più da dedicare a voi stessi sapendo che i vostri figli e nipoti stanno unendo l’utile al dilettevole.
Vi andrebbe di tendere una mano a quelle persone che ci sono con la testa, ma che non sono in grado di agire di persona, pur avendo la voglia di sentirsi rivivere in noi giovani?
La gioventù va incoraggiata e aiutata, dandoci una mano riusciremmo insieme a fare qualcosa di bellissimo per il futuro mandando avanti una cultura così importante, sempre ricordandoci che sono stati proprio i più piccoli cittadini a farlo.
Colgo l’occasione di dedicare tutto questo a mio nonno ringraziandolo per tutti i valori che mi ha trasmesso dicendogli che sarà sempre nel mio cuore pur essendo molto lontano. Ringrazio anche mia nonna e i miei genitori per avermi insegnato la vita e la tradizione del mio paese pur essendo sempre vissuta all’estero.

Doriana Turi

Saluto al Peter Pan del Pop che ci ha lasciato

Il giorno 25 giugno 2009 all'ospedale Ronald Reagan UCLA Medical Center a Los Angeles (Usa) è morto il cantante e ballerino americano Michael Jackson. Lo trovarono nella sua abitazione a mezzogiorno con un arresto cardiaco, per un ora gli fecero la rianimazione e lo portarono al pronto soccorso, ma non poterono fare più niente per farlo tornare in vita. Michael aveva compiuto 50 anni l'agosto del 2008.

Con Michael Jackson il mondo ha perso un grandissimo talento che già da piccolo iniziò a cantare, dagli anni '60 insieme ai suoi fratelli nel gruppo The Jackson Five. Nel 1982, dopo diversi dischi che aveva fatto da solo, ebbe un grande successo con l'album «Thriller», che fino ad oggi con 109millioni di copie vendute resta l'album più venduto nella storia della musica pop.

Dagli anni '90 iniziarono ad andargli peggio le cose. Gli fecero due processi per pedofilia (l'anno 2005 venne prosciolto), si fece delle plastiche al naso che andarono male, sembra che divenne dipendente dai farmaci, che s'imbianchì la pelle, ma aveva una malattia, la vitiligo, che lo fece imbianchire, si sposò e si divorziò due volte.

Michael rimarrà nei nostri cuori per quel che era. Un ballerino che con i suoi movimenti ci lasciava a bocca aperta, un cantante che aveva la grazia di dio nella voce, un poveretto che prese i calci nel sedere dal padre. Era un uomo che voleva rimanere bambino per tutta la vita e si ruppe per questo mondo, come il suo eroe che nominava sempre nelle interviste, Peter Pan.

Thanks for all Michael, and may you rest in peace!


-Carlo Guarini-

Il Grico ed il Neogreco

Dopo l'entrata in vigore della legge che impone alle minoranze linguistiche d'Italia l'obbligo (a richiesta degli utenti) della redazione degli atti pubblici nella lingua minoritaria, l'Unione dei Comuni della Grecìa Salentina ha provveduto alla nomina di nove traduttori-interpreti cui è demandato l'arduo compito di trasferire (ove richiesti) verbali di sedute di Consigli Comunali, di riunioni degli organi direttivi dell'Unione dei comuni grecofoni e qualunque altro pubblico documento nella lingua minoritaria. Non vorrei essere nei panni di coloro che hanno accettato l'arduo compito. Devo rilevare, per inciso, che il manifesto con cui è stato bandito il concorso per l'assunzione dei traduttori era stato redatto solo in burocratese italiano. Mi rendo perfettamente conto che nessuno al mondo sarebbe stato in grado di creare un testo, anche elementare, in burocratese grico. Mi è stato spesso chiesto l'equivalente grico di termini di uso assai comune, ma non sono stato in grado di esaudire tale richiesta perché il dialetto grico tagliato circa mille anni fa dalla sua lingua di riferimento, decapitato dei suoi intellettuali, cioè dei sacerdoti di rito greco, circa quattro secoli fa, non dispone di un lessico aggiornato alle esigenze del mondo contemporaneo. Il greco di Calabria e quello di Puglia riescono a mettere insieme solo seimila vocaboli che riflettono le esigenze di comunicazione di popolazioni quasi esclusivamente contadine e non possono soddisfare in alcun modo le necessità di chi vive nella società moderna in cui i figli e i nipoti dei contadini grecofoni sono diventati medici, avvocati, pubblici funzionari, ecc. Ciò non vale solamente per il grico, ma per tutti i dialetti, anche per quelli di matrice neolatina. Mi sovviene a questo proposito quanto scriveva il Manzoni circa due secoli fa ne "I promessi sposi" citando il nome del forno devastato dai milanesi affamati " Al prestin de' scansc", cioè "Il forno delle grucce" e l'equivalente latino "pistrinum" del nome "forno". Alcuni giorni fa il titolare della panetteria da cui mi servo, desiderando riportare nell'insegna del suo negozio l'equivalente grico di "panetteria", ha dovuto constatare che in grico abbiamo soltanto il termine "furno", cioè il luogo dove si confeziona il pane, mentre manca l'esatto corrispondente di "panetteria", cioè il luogo dove esso si vende. Ho dovuto suggerirgli il termine neogreco "artopoleivo" che significa letteralmente "vendita di pane", ma non sarebbe compreso dai nostri grecofoni residui. In verità anche i Greci hanno il sostantivo "fouvrno"" come prestito italiano, ma attingendo al lessico del greco antico hanno creato, per le insegne dei negozi dove si vende, il neologismo "artopoieivo" che significa "luogo dove si fa il pane". Analogamente non esiste in grico il verbo "augurare" e neppure il sostantivo "auguri", ma il loro equivalente neogreco non sarebbe compreso nella Grec™a Salentina. Potrei citare molti altri esempi analoghi che possono testimoniare che i dialetti, in generale, tendono a scomparire perché non riescono a soddisfare col loro ridotto patrimonio lessicale le vastissime esigenze di comunicazione delle società moderne. Il neogreco, dispone di circa 170.000 vocaboli. Un terzo circa di questi vocaboli sono di origine greca antica, sono presenti nella lingua italiana e in molte lingue europee ed appartengono alla terminologia scientifica dei vari settori del sapere. Ne fanno parte anche i vocaboli grichi. Inoltre, coloro che insegnano il grico non possono prescindere dalla conoscenza del greco antico e/o moderno, se non vogliono incorrere in madornali strafalcioni ortografici. La morfologia e la sintassi del grico sono per il 90% uguali a quelle del neogreco. Anche le strutture morfologiche e sintattiche del dialetto romanzo parlato nella Grec™a Salentina sono analoghe a quelle del neogreco perché ne rappresentano la traduzione letterale dal grico. Chi conosce il grico e/o il dialetto romanzo e vuole apprendere il neogreco, si trova nella stessa fortunata condizione del giocatore di scopa che parte con quattro punti di vantaggio sul suo avversario. Quanto ho molto sinteticamente esposto potrebbe essere suffragato da ampia documentazione di esempi tratti da raffronti grammaticali e lessicali. Non a caso i militari italiani, anche quelli analfabeti, originari della Grec™a Salentina, mandati in Grecia come truppe di occupazione, dopo un paio di mesi riuscivano a comprendere e ad esprimersi in greco moderno, molto meglio dei loro ufficiali italiani che avevano seguito studi classici. Nell'Europa multilingue che si sta faticosamente edificando e che richiederà ai nostri figli e nipoti la conoscenza di più lingue, noi grecofoni siamo tra i cittadini italiani quelli più favoriti nell'apprendimento del neogreco. Proprio per queste lungamente meditate considerazioni i cultori del grico hanno chiesto ed ottenuto dal Governo della Grecia la presenza e l'aiuto nelle nostre scuole di insegnanti greci. Purtroppo non tutti hanno compreso, anche per difetto di informazione, quanto sia importante per noi grichi, salentini e pugliesi la conoscenza del neogreco. Molti gricofoni, o aspiranti tali, non si rendono conto che il grico, da solo, conduce all'isolamento; che le giovani madri di oggi, a differenza delle loro nonne, non hanno come unica lingua il grico. Le giovani insegnanti di grico, che hanno frequentato un corso di pochi mesi, anche se lo capiscono, non lo parlano abitualmente e nella maggior parte dei casi non ne conoscono la grammatica. Non a caso nelle scuole della Val d'Aosta si insegna il francese e non il dialetto gallo-provenzale, nella Venezia Giulia lo sloveno, nell'Alto Adige il tedesco e non il dialetto tirolese delle singole valli. Perfino nel Trentino italofono è obbligatorio l'insegnamento del tedesco come prima lingua "straniera". Per questi motivi, circa trent'anni fa, quando ebbe inizio la lotta per il riconoscimento delle minoranze linguistiche d'Italia, i cultori del grico considerarono utile e necessario l'insegnamento del grico nella scuola materna e nel biennio iniziale della scuola elementare con la didattica propria di quell'età, l'approccio al neogreco nel triennio successivo e l'insegnamento della lingua e della grammatica neogreca nella scuola media e negli istituti superiori.

Salvatore Sicuro


I 6'000 lemmi che ci sono pervenuti dal greco del secolo XVII, sembra che sono bastati perché noi capissimo quello che Salvatore Sicuro ci voleva dire. Le «lingue standard» come il neogreco e l'italiano, vollero un grande impegno per diventare quel che oggi sono. Ci fu gente che si occupò, che le scrisse, che lavorò e che giocò con queste lingue, e che le arricchì di neologismi e di nuova linfa, perché potessero vivere e cambiare insieme al mondo. Noi cerchiamo di fare questo lavoro per il grico con i Spitta. Dall'altro canto, ci fu sempre gente che andava „con la lingua tra i denti“, cioè che parlava in neogreco ed in italiano. Può essere che sia questo il più grande problema che ha il grico oggi. Sono troppi quelli che non vogliono più parlarlo.

Il prof. Sicuro ha ragione quando dice che i bambini a scuola devono imparare il neogreco. Ma è il greco otrantino e non il neogreco il legame che ha il Salento con la Grecia. Se si perde il nostro grico, nel Salento si perde l'ellenofonia. Per questo dobbiamo fare attenzione a mantenere vivo il grico – se il neogreco ci deve servire a qualcosa.

-La redazione di Spitta-

venerdì 8 maggio 2009

Evento a Calimera


Sabato 9 maggio a Calimera alle ore 20:30 si terrà nella mediateca comunale una manifestazione culturale organizzata dalla associazione "Grika milùme!" che coniuga la lettura di poesie in griko alle produzioni di giovani artisti locali.

sabato 11 aprile 2009

MIEI NUOVI VESTITI DI PASQUA

(Storia di mio zio)

Ero giovane nella scuola elementare del nostro villaggio. Mio nonno, nei giorni della Grande Quaresima sempre mi spingeva a imparare la preghiera di "CIRIE DINAMEON", chiedendomi di inginochiarmi ogni sera, prima di andarmi a dormire, per pregare.Con anzia io aspettavo la Grande Settimana e la Sacra Passione, perche dopo sarebbe venuta la Resurezione di Cristo.
Quante nuove cose e quante contentenze avevo il giorno di Pasqua!! Con tutta la gioia che mi portava !! Ma la più importante di tutte erano i miei nuovi vestiti, la mia nuova "vraka" (pantaloni) e il mio bello"jeleco"(camiciola) che mia madre cuciva per lungo tempo e preparava con richami di tutti i colori che decoravano l'orlo del mio "jeleko" e anche le tasche. E quando arrivava il giorno di Pasqua, andavo in chiesa.
Camminavo con orgoglio, credendo che ero io il solo a camminare con i miei nuovi belli vestiti. Invece noi tuttii giovani credevamo di essere noi a portare la Pasqua con le rosse uova e tutta quante l' allegria di quel giorno!!!!!. E il mio "zonari"(cinta) io l' ho dimenticato??... Fatto di seta : mia nonna mi l'ha portato, quando lei e andata a nuotare al fiume "Giordano"dove Cristo era stato battezzato e a pregare sulla tomba del Santo Sepolcro. Sopra la bella cintura di seta erano ricamate le lettere di una preghiera. Mi ricordo come tutti i miei amici tradivano la loro gelosia vedendo il mio"zonari": perche quello loro era fatto della stessa roba della loro "vraca"(pantaloni) o con seta ricamata dai bossoli di bachi da seta che le donne allevavano e che preparavano e coloravano per fare il filo di seta, ma non come quello mio.
Io ero magrino e non pesavo tanto. Per fare i miei nuovi vestiti era poco il costo e quindi facile era confezionarli. Solo il mio "zonnari" era venuto da fuori, ma tutto il resto era fatto con materiali provenienti dal villagio e non costava troppo vestire un giovanotto della mia età a quel tempo. Così mio padre poteva risparmiare più soldi per acquistare le altre cose per la casa. Da solo mio padre coltivava il cotone di cui avevamo bisogno. Mia madre invece, lo dipanava con le sue mani, poi lo turbinava e faceva la filatura che la tingeva con i suoi bei colori, fatti di erbe e fiori. Il filo, piano piano aumentava sul telaio e intanto cantava una canzoncina antica, e tessendo creava il panno, ma che panno!! Come era resistente quel panno dei nostri vestiti! Ci sembrava, vestendo il nostro corpo con i nuovi vestiti di Pasqua e andando in chiesa, che Cristo con la forza della della sua resurrezione ci benecesse e facesse i nostri vestiti forti e specialmente a
la mia "vraca”.(pantaloni)

THEONIA DIAKIDIS

Dolce il nome di mamma!

La madre che ci ha creato,
ci ha regalato non solo il suo sangue
che corre nelle vene del nostro corpo:
ci ha regalato anche la spiritualità e la moralità che ci impone
di fare buone e grandi azioni.

La mamma è la nostra consolazione,
la gioia ed i fiori della nostra primavera.
Amore come il suo non potrai trovare sulla Terra!

Solo coloro che hanno perduto la loro madre,
solo loro capiscono
quanto pesante e aspro
sia il dolore che li nutre.

Mamma, dolce nome,
come posso dimenticarti,
se ti tengo dentro il cuore dovunque vada e da qualsiasi luogo torni!

Tenevo la tua mano che mi benediceva!
Nella mente mi risuona
la bella tua favella.
Dove troverò, mamma, le parole per il mio lamento
e per confessarti quanto sia amaro il mio dolore?

Theonia

venerdì 10 aprile 2009

Chi ha paura della primavera?

di Francesco Penza

Tutti siamo felici di vedere che sta arrivando la stagione migliore, si sente un po’ di caldo e la sera non è più così buia. A dire la verità però c’è anche chi non si rallegra tanto, perché questa è anche la stagione peggiore per le allergie. Prudono gli occhi, si chiude il naso, non smettono gli starnuti e qualcuno se la deve vedere anche con l’asma che gli chiude i bronchi. Di chi è la colpa? Di piante che inviano nell’aria polline e questo con il vento in poco tempo di disperde ovunque. E la colpa è anche del nostro sistema immunitario, quello che ci difende dalle malattie, che invece di prendersela con virus, batteri ed altro va a fare la guerra al polline, per molti al polline di graminacee, piante imparentate con il grano che crescono ovunque, oppure con la parietaria, erba che cresce sui muri, o di olivo e altre piante. Ma ogni tanto se la prende pure con il pelo di cani o gatti, oppure con gli acari della polvere, animaletti piccolissimi che vivono nei cuscini, nel letto e nella polvere. Quelli che hanno l’allergia agli acari poi, stanno peggio degli altri perché hanno il raffreddore tutto l’anno. Si chiama “allegia” dal greco antico “allos” (altro) e “ergon” (lavoro, ma anche reazione).
C’è chi dice che oggi sono cresciute le allergie perché viviamo molto puliti e senza infezioni, per questo il sistema immunitario non trova più con chi prendersela e finisce per dedicarsi a polline e acari.
Ma che devono fare coloro che hanno l’allergia? Per prima cosa devono chiedere i “prick test” che si fanno sulla pelle per vedere quale allergia si ha, poi devono sentire il proprio medico per la terapia che può essere giusta per loro. Per coloro che hanno solo una allergia o due, c’è la possibilità di prendere un “vaccino” (terapia iposensibilizzante specifica) che spesso consiste in gocce da mettere sotto la lingua ogni giorno. Sennò devono prendere spray nasali, gocce per gli occhi e alcune terapie in compresse come l’antistaminico la sera. Qualcosa si può fare per migliorare la situazione in casa, per limitare polvere e acari: cambiere materasso e cuscino con usando quelli in lattice, togliere tutto ciò che porta e trattiene la polvere (tappeti, moquette), usare aspirapolvere con filtro HEPA, e altre misure. Devono fare attenzione coloro che hanno l’asma, perchè devono andare dallo specialista pneumologo per capire se devono fare una terapia specifica per mantenere aperti i propri bronchi. Così anche loro potranno godersi il bel tempo!

Quaresima - Sarakostì

di Giuseppe De Pascalis e Iannis Papageorgiadis

Quaremma, personaggio simbolo del passaggio da un periodo di allegria, qual’è il Carnevale, ad un periodo di privazioni e preparazione alla Pasqua qual’è appunto la Quaresima. Si tratta di un fantoccio di paglia, appeso fuori dalle case, che personifica una “vecchia” che indossa un abito scuro, un fazzoletto in testa e, in mano, un fuso e una conocchia. Elemento caratterizzante la Quaremma è, inoltre, un’arancia in cui sono infilzate, a raggiera, sette penne di gallina, una per ogni settimana della Quaresima. Alla fine di ogni settimana si toglie la penna corrispondente ed il giorno di Pasqua la Quaremma viene bruciata a simboleggiare la liberazione dalle privazioni e dalla sofferenza.

Sarakostì viene dal greco Tessarakostì o semplicemente Sarakostì, nome dato al periodo di digiuno (astinenza e penitenza) di quaranta giorni prima di Pasqua istituito al quarto secolo d.C.
Per gli ortodossi la Sarakostì va dal « Lunedì pulito » al venerdì prima della domenica delle palme. Per i cattolici invece inizia il martedì grasso e va fino al sabato di Lazzaro, vigilia della domenica delle palme.
Col passare del tempo si sono aggiunti o sottratti altri giorni per arrivare in fine a definire un periodo di sette settimane prima di Pasqua, l'ultima delle quali è la settimana santa.

Tempo fa, quando non esistevano ancora i calendari di oggi, per sapere quanto tempo rimaneva fino alla fine del digiuno, in molti paesi della Grecia, si costruiva un “calendario”, chiamato “kirà sarakostì”, signora Sarakostì. Si trattava, di solito, di un disegno su un foglio di carta che rappresentava una suora senza bocca perché digiunava, con le braccia incrociate perché pregava e con sette piedi perché erano sette le settimane di digiuno. Ogni sabato le tagliavano un piede. Il sabato santo tagliavano l'ultimo piede e lo nascondevano in un fico secco. Questo fico lo mescolavano con altri fichi e colui a chi capitava il fico “farcito” era il più fortunato.

Nel Salento invece, la Sarakoctì (Quaremma o Quaresima o Quaresma, dal francese carême) era rappresentata da un fantoccio di paglia, appeso fuori dalle case, che personificava una “vecchia” in abito scuro, un fazzoletto in testa e, in una mano portava un fuso e una conocchia e nell'altra un'arancia su cui venivano infilate sette penne di gallina, una per ogni settimana della Quaresima. Alla fine di ogni settimana si toglieva una penna e il giorno di Pasqua la Quaremma veniva appesa ad un filo su un palo e veniva bruciata.

In altri paesi della Grecia la figura della Sarakostì era fatta con un impasto di farina acqua e sale o con della stoffa che riempita diventata un pupazzo. Vale però la pena notare che nei paesi greci del Ponto, sul Mar Nero, la Sarakostì era rappresentata da una patata o da una cipolla che si appendeva al soffitto sulla quale si infilzavano sette penne di gallina come sull'arancia della Sarakostì salentina. Anche qua si toglieva una penna ogni settimanae così contavano quanto rimaneva fin'alla resurrezione. Questo “calendario” si chiamava “kukurà”.

I ratti sono sensibili alle onde della telefonia mobile

di Iannis Papageorgiadis

Ancora un segnale d'allarme scientifico!
Una tesi di dottorato esposta all' UCL (Université Catholoque de Louvain) dimostra un raddoppiamento della mortalità dei ratti sottoposti a deboli campi elettromagnetici come quelli emessi dai cellulari.
Iniziata da Dirk Adang, questa ricerca ha la particolarità di esser stata realizzata durante un lungo periodo e secondo una metodologia giudicata di qualità da esperti indipendenti.
I ratti hanno un patrimonio genetico molto simile a quello umano. La motivazione del giovane ricercatore è di pubblica utilità : per lavorare sul tema delle lunghe esposizioni non ha aspettato che l'Organizzazione Mondiale della Sanità pubblichi i suoi risultati, attesi nel 2012.

La ricerca principale
Le cavie: i ratti
Il 90% del materiale genetico del ratto e dell'uomo è comune.
La durata
Il ratto vive in media due anni e mezzo. Per 18 mesi, cioè per il 70% della loro durata media di vita, Dirk Adang ha sottomesso tre gruppi di ratti a tre diverse radiazioni elettromagnetiche. Un quarto gruppo, di controllo, non ha subito nessuna radiazione.
I controlli
Per esaminare le conseguenze sulla salute dei ratti, si procedeva, ogni tre mesi, ad un prelievo di sangue. Le analisi rivelavano un aumento dei monociti in tutti i gruppi esposti; fatto che indica uno stress o una reazione dell'organismo a un' aggressione esterna o una intrusione.
In oltre, dopo un'esposizione di 11 e 18 mesi, tanto i leucociti quanto i neutrofili erano aumentati, relativamente al quarto gruppo, di controllo.
Il tasso di mortalità
Tre mesi dopo la fine dell'esperienza, la mortalità nei tre gruppi sottoposti alle radiazioni risultava essere il doppio di quella del quarto gruppo di controllo: 60% contro 29%. Dirk Adang suppone che questo sia il risultato della reazione e della modifica del sistema immunitario. Dei 124 ratti solo 19 sono stati fin'ora oggetto di dissezione. Numero troppo piccolo per essere significativo e stabilirne dei paragoni. Segnaliamo comunque che la morte di 17 dei 19 ratti esposti a delle radiazioni è stata causata da diversi tumori (collo, ginocchio...).
“Dopo le dissezioni degli altri si dovrà verificare se l'esposizione alle microonde a provocato un invecchiamento precoce dei ratti. Delle presunzioni esistono a questo livello” ha segnalato il ricercatore.
I risultati: mortalità dei ratti dopo 18 mesi di esposizione a delle radiazioni elettromagnetiche
Primo gruppo: frequenza delle radiazioni, 10 GHz (radar militare) : 61,3%
Secondo gruppo: frequenza delle radiazioni, 1 GHz (cellulare) : 58,1%
Terzo gruppo: frequenza delle radiazioni, 1 GHz (radar polizia) : 48,4%
Quarto gruppo: nessuna radiazione : 29%

Altre osservazioni
L'esposizione dei ratti a delle radiazioni durante 15 mesi a provocato delle perdite evidenti di memoria. “Queste osservazioni dovrebbero essere sufficienti per giustificare degli studi complementari a proposito” ha concluso Dirk Adang.

Conclusione
Siamo tutti cavie della telefonia mobile?
Nonostante tutto, si fa tanto chiasso per l'arrivo dell' iPhone3G in Europa.
Speriamo che non contribuirà alla conferma delle previsioni di questa ricerca.

Quaresima nel ricordo dei più vecchi

di Giuseppe De Pascalis

Quaresima, tempo di mangiar di magro e di digiuno.
Questo racconto è una sintesi di una chiacchierata con gente un poco avanti con gli anni.
Ciò che viene all’occhio è che comincia e finisce col mangiare. Tempi duri!

Dicevamo: è entrata quaresima! Abbiamo finito di mangiare bene e non si poteva assaggiare più neanche un uovo. Se stavi proprio male e stavi per morire, forse, forse, e pure doveva essere il dottore a dire: dagli “qualcosa di buono”, altrimenti non l’assaggiava nessuno quella cosa là per tutta la quaresima.
La quaresima cominciava dall’ultima domenica di carnevali, dal lunedì dopo la domenica. Ma dicevano che hanno incluso nel periodo di carnevale il lunedì ed anche il martedì per gli zoppi o per qualcuno che era lontano, altrimenti la quaresima comincia dalla domenica dopo carnevale e fino a Pasqua è sempre quaresima. Sono sette settimane, sette settimane dura proprio la quaresima. Quei due giorni gli hanno lasciati, dicono per quelli che arrivavano “con l’ultimo treno” perché potessero far carnevale con i loro familiari, perché allora si diceva: carnevale con i tuoi e a Pasqua con chi ti trovi. Adesso dicono: a Natale con i tuoi e a Pasqua con chi ti trovi.
Mercoledì dopo il martedì di carnevale erano le ceneri. Le ceneri rappresentavano proprio l’inizio della quaresima. Se andavi in chiesa quel giorno, il prete ti metteva un pizzico di cenere sulla testa, ma ancora adesso fannola stessa cosa. Ti metteva la cenere e ti diceva: polvere sei e polvere diventerai. E di quella cenere, dicono, io non l’ho mai visto, che i preti bruciano un po’ di palme dell’anno precedente e raccolgono la cenere che poi usano il giorno delle ceneri.
La domenica prima dell’arrivo di Pasqua sono le Palme.
La domenica delle palme facevano i “cazzeddhi” con confetti e caramelle ed i giovanotti che avevano la fidanzata facevano la “crocemarta” che erano sempre delle palme intrecciate, ma con una figurina sacra nel mezzo. Quest’ultima era però molto lavorata e chi non era in grado di farla pagava perché gliela facessero per poterla portare all’innamorata per appenderla al letto.
La fidanzata, poi, allorché giungeva Pasqua, regalava al fidanzato la “Cuddhura”. Molte volte quest’ultima aveva forma di cuore e con l’uovo sodo nel mezzo.
Il giorno delle palme in ogni paese cantavano la passione. Andavano per masserie, per le strade e nelle botteghe: uno suonava e due cantavano.
La Settimana Santa andava dalle Palme fino a Pasqua.: lunedì santo, martedì santo, mercoledì santo, giovedì santo, venerdì santo, sabato santo, Pasqua!
Nel periodo di quaresima venivano sempre per due settimane i missionari per fare le prediche, per convertire la gente. Lunedì santo, martedì santo, mercoledì santo facevano ancora di queste prediche, il giovedì santo facevano i Sepolcri e la predica della passione di Cristo.
Il venerdì santo non suonavano né campane né niente, la mattina facevano la “messa scerrata”: i preti non consacravano, non facevano niente e quando finivano di dire messa lasciavamo tutto disordinato e andavano via.
Facevano la processione con la Madonna Addolorata e Cristo morto nella bara, andavano girando tutte le cappelle, e una volta passata la processione “alzavano” il sepolcro: toglievano il Crocefisso che giaceva morto per terra e disfacevano il sepolcro.
Allora il Cristo lo facevano risorgere la mattina di sabato santo.
Tutti andavano in chiesa. Questa era la festa delle raganelle, delle “cuddhure” e dei bambini: tutte le mamme andavano in chiesa insieme a tutti figlioletti.
Il giovedì santo i forni del pane cuocevano le “cuddhure”: ai figli maschi facevano il “campanile” con l’uovo dentro, alle figlie una “pupa” o un “carciofo” sempre con dentro l’uovo. Non le mangiavano, ma le lasciavano per la messa del sabato santo: chi più portava in chiesa la raganella e la “cuddhura”, ma per quanto fossi piccolo quest'ultima non la potevi mordere prima che facesse gloria. Una volta avvenuta la resurrezione, i piccoli si scapricciavano a girare le raganelle e a mangiare la “cuddhure”.
Passando Pasqua arriva Pasquetta che allora era detta “casarìn dettera” (Lunedì pulita dai peccati), ma tutta la settimana dopo pasqua era “casarì”: lunedì monda, martedì monda ecc.. fino alla domenica.
Tutto ciò che si era perduto, che non si era mangiato nel periodo di quaresima si mangiava nella “casarì” settimana. Si mangiava qualche uovo, un poco di formaggio, si facevano i maccheroni più spesso; potevi mangiare carne se avevi soldi.
Nel periodo di quaresima ti veniva inflitta la sentenza di andare in prigione se mangiavi carne.

Il cavallo e l’asino

Dalla favola di Esopo

Un uomo, un cavallo ed un asino andavano camminando per la montagna. L’asino andava carico di legna. Stanco disse al cavallo: non ho più fiato, cugino. Prendi adesso la tua parte di legna, altrimenti crepo. Il cavallo fece il sordo e l’asino ritornò a dire: non senti cugino, se non ne prendiamo un po’ per ciascuno io muoio! Ma il cavallo nitrendo rispose: cammina e non parlare, stupido! Hai trovato mai un cavallo carico di legna? Il povero asino tacque e continuò a tirare: tanto tirò che cadde per terra restando rigido. L’uomo senza dire niente gli tolse il carico, gli tolse la pelle e la posò sulla legna e caricò tutto sul cavallo. Quando sentì che pesava, l’animale si accorse ( di ciò che aveva fatto) e disse: ah, cosa ho fatto, per non portare la mia parte, adesso devo portare il carico… ed anche la pelle.

Giuseppe De Pascalis

LA VITA DI UNA VOLTA

di Leonardo Antonio Giannuzzi

oggi per poter mangiare bisogna andare al supermercato per comprare a suon di quattrini
tutte le cose che si producevano in casa una volta: olio, il pane, il formaggio, la salsa,
la ricotta, il caffè di orzo, il caffè americano e tante altre cose che prima si producevano
in casa, in campagna e nella masseria. Si produceva il lino, cotone e dalle pecore si prendeva la lana. Le donne sul telaio tessevano le robe che servivano in casa e in campagna.
In campagna c'era un trullo, una tettoia dove ci stavano il cavallo i buoi, la giumenta,
diverse galline, due o tre galli e un maialetto che stava dietro il cortile sotto
un'ombreggiata di stoppie.
Nel trullo, che era come una stanza, dormiva
telai di ferro (tristiegdhi) alcune tavole di legno ed un saccone pieno d paglia di grano.
Sotto il letto dormivano i bambini; i più grandi dormivano nel pagliaio.
Tutta la famiglia di quel tempo stava tutta l'estate in campagna: si faceva la biada per
i cavalli, foraggio per i buoi e granaie per tutti. La mucca dava il latte che insieme
a quello di pecora serviva per fare la ricotta che con il siero e una ricottina insieme
al pane duro rimasto dalla sera,serviva per fare colazione.
Dopo si faceva il formaggio che si metteva sottosale per stagionare.
La madre si alzava un'ora prima degli altri e faceva cuocere il pane rimasto dalla sera
prima insieme a piselli, cipolle, peperoncino piccante, olio, verdure.
Il tutto si friggeva in una pentola. Dopo la cottura si svuotava in una taeddha grande con due presine dove tutti mangiavano: i grandi bevevano un bicchiere di vino, i ragazzi un bicchiere di acqua di cisterna. Poi ognuno andava al suo lavoro: i piccoli portavano le pecore al pascolo, il ragazzo più
grande puliva la stalla dando da mangiare la canigliata agli animali, raccoglieva le uova
e anche la legna. Il più grande prendeva il cavallo, gli metteva la sacchetta piena di
biada e di carrube ed andava ad arare la terra dove si doveva piantare ortaggi, cocomeri,
pomodori per la salsa, verdure e quanto serviva per la casa. Quando era mezzodì, tutti rientravano nel trullo per mangiare e fare la pennichella fino all'affievolire della calura. Al pomeriggio si raccoglieva il fieno nella pagliera, la legna che serviva a fare il pane: per fare il pane si raccoglievano le spighe che cadevano a terra quando si mieteva l'orzo.
Le donne con le figlie prendevano le sacchette, le riempivano di spighe, le portavano
a seccare sopra l'aia e quando il sole le seccava dopo due giorni, le sgretolavano
con un grosso bastone (manuleddha) e con un setaccio (zingarieddhu) si toglieva la
polvere, si riempiva il sacco e si portava al mulino.
Una volta macinato si faceva una "sottile": nel caso il tuo pane non bastasse per
un'infornata, si aggiungeva il pane di altre persone per completare l'infornata.
Dalla "sottile" uscivano circa 15 pezzi di pane tra pucce e friselle.
Frisella: pane biscottato che dopo averlo sfornato alla prima cottura, veniva tagliato
con un filo e poi infornato di nuovo.
Tra le pucce, si facevano anche le "olivate" che la madre distribuiva al vicinato,
ai fratelli, ai cugini, alle comari e spesso anche alle famiglie meno abienti dove
c'era fame chiedendo in cambio una preghiera per i defunti.
Per ogni famiglia una puccia e una olivata.
Con questa fare che la donna aveva, il pane in casa era sempre caldo perchè un giorno
lo faceva la comare Lucia, un giorno lo faceva la comare 'nntonia poi la comare Teresa,
poi lu cumpare Giuvanni e si andava avanti così: un continuo scambio.
Con le pucce, le olivate, le cuie, le schiacciatelle, le sceblasti, i pittarai
( tipo di focaccia).
Con il tutto si consumava un bicchiere di vino di Carpignano che era una festa.
A Carpignano il vino si faceva buono perchè c'erano molte vigne dove i martanesi andavano a zappare a giornata.
La sera quando la gente finiva di mangiare e di bere il vino affatticati e stanchi per il
lavoro svolto chi nei campi, chi alla mietitura, chi tra le vigne uscivano tutti
sul limitare della porta di casa.
Si raggruppavano per parlare degli avvenimenti della giornata e nel frattempo i ragazzini
giocavano a nascondino e le signorine si facevano notare dai giovanotti e le madri
filavano con la conocchia la lana delle pecore.
quando si faceva tardi il più anziano del gruppo richiamava tutti dicendo:" adesso andiamo
a dormire che domani ci attende una grande giornata. Buona notte a tutti, buon sonno e statevi bene".

Scusatemi se vi ho stancato. Io sono Leonardo Antonio Giannuzzi da Martano

LETTURE DAL RITO GRECO

di Giorgio Leonardo Filieri


Nel Rito Greco la Grande e Santa Quaresima è un periodo pieno di funzioni e liturgie molto belle e suggestive. Ma è soprattutto durante la Settimana Santa che si concentrano le più caratteristiche, con preghiere, canti e letture che possono far comprendere quanto è ricco questo Rito e quanto esso rifletta la spiritualità del popolo della Grecìa Salentina.

Quando si officia il vespro del Mercoledì Santo si “canta” questa lettura:
Signore, tu sei sempre buono:
non abbandonare colui che hai creato con le tue mani.
Ti ringrazio, mio Dio, con tutto il mio cuore.

Lettura dal libro di Giobbe:

Un giorno gli Angeli di Dio andarono a parlare con il Signore e fra di essi c’era anche il Diavolo.
Dio disse al Demonio: “Da dove stai arrivando?”. “Ho appena fatto –disse il Diavolo- un giro sulla terra ed ora sto arrivando dopo averla percorsa tutta!”. “E non si passato dal mio servo Giobbe? –chiese allora Dio al Demonio- non esiste sulla terra un altro uomo più giusto e più retto di lui! Ha timor di Dio e non fa mai il male! Non perde mai la sua bontà: tu mi hai spinto a fargli del male, a rovinarlo, ma lui non lo meritava”. Disse il Diavolo: “Pelle per pelle! L’uomo vende tutto ciò che ha , per salvare la sua vita. Stendi un po’ le tue mani e toccagli le ossa, vedrai come ti dirà beato e ti benedirà in faccia!”. Allora Dio disse al Demonio: “Lo lascio nelle tue mani! Fagli quello che vuoi, risparmiagli soltanto la vita!”. Il Diavolo si allontanò da Dio, andò da Giobbe e lo colpì con una piaga maligna dalla testa ai piedi. Giobbe prese un coccio e cominciò a grattarsi, uscì e si sedette su un cumulo di cenere. Giunse sua moglie e gli disse: “Stattene lì! Sei ancora intenzionato a comportarti da uomo giusto? Benedici Dio e muori!”. Lui rispose: “Parli come una donna stolta! Come abbiamo voluto accettare da Dio il bene, non dovremmo ora voler accettare anche il male?” Così parlò Giobbe, e per quanto disse con le sue labbra non commise peccato davanti a Dio.



Un’altra lettura viene cantata (poiché nel Rito Greco anche le letture si cantano) quando viene svolta l’officiatura del Mattutino di Sabato Santo:


Risorgi, Signore, aiutaci e liberaci
per la gloria del tuo nome

Abbiamo udito, Dio, nelle nostre orecchie
i nostri padri ce lo hanno annunciato.

Lettura della profezia di Ezechiele

Avvenne che la mano del Signore fu su di me, il Signore mi portò fuori nello spirito e mi depose nel mezzo di una pianura e questa era piena di ossa umane; e mi condusse in giro intorno ad esse, ed ecco ce n’erano in quantità enorme sullo sfondo della pianura, completamente inaridite. E disse a me: “Figlio d’uomo, queste ossa potranno mai rivivere?”. Io dissi: “Signore, Signore, tu sai queste cose”. E lui a me: “Profetizza verso queste ossa ed annunzia loro: ossa inaridite, ascoltate la parola del Signore; queste cose dice il Signore a queste ossa: ecco io porto su di voi lo spirito della vita e porrò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne e stenderò su di voi la pelle e farò entrare in voi il mio spirito, e vivrete e riconoscerete che io sono il Signore”. Ed io profetizzai così come mi aveva ordinato il Signore. Ed avvenne che mentre io profetizzavo ecco un movimento si diffondeva fra le ossa spostando ognuno verso la sua corrispondenza. E vidi, ecco su di esse i nervi e le carni crescevano e si stendeva su di esse la pelle. Ma non c’era spirito in esse. E mi disse: “Profetizza riguardo lo spirito, figlio d’uomo, profetizza e di’ allo spirito: Il Signore dice questo: vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, e diventino vivi”. E profetizzai riguardo tutto quello che mi venne ordinato; ed entrò in essi lo spirito, ed essi visserro e si alzarono sui loro piedi, un’innumerevole moltitudine. E il Signore mi parlò dicendo: “Figlio d’uomo, queste ossa sono tutta la casa di Israele. Essi dicono: le nostre ossa sono diventate secche, la nostra speranza è svanita, siamo perduti per sempre. Perciò profetizza e dì loro: Questo dice il Signore: Guardate, io apro le vostre tombe e vi farò rialzare dai vostri sepolcri e vi farò entrare nella terra d’Israele e riconoscerete che io sono il Signore, nell’aprire le vostre tombe, nel far risalire fuori dai sepolcri il mio popolo. E darò a voi il mio spirito, e vivrete, e vi collocherò nella vostra terra e riconoscerete che io sono il Signore; ho parlato e agirò”, dice il Signore.


Ancora oggi la spiritualità della gente, nei nostri paesi, non cambia molto da quella che era una volta, al tempo del Rito Greco; quando si leggono questi brani lo si riesce a capire perfettamente.