sabato 6 settembre 2008

UN TESORO IN UNA CRIPTA BIZANTINA DEL SALENTO

Certe cose sono delle meraviglie, dei capolavori stupendi, e splendono agli occhi di tutti. I tesori sono cose nascoste, si devono cercare e, quando vengono scoperti, la loro bellezza si rivela forse più dolce e il loro ricordo più durevole.

La cripta delle SS. Marina e Cristina a Carpignano è già stata presentata ai lettori della Spitta. Questa chiesa sotterranea risale a più di mille anni, ed alcuni segni di rimaneggiamento evidenziano il passaggio nel XVIII sec. dal rito greco a quello latino. Il complesso, con i belli affreschi dal IX al XV secolo, costituisce una testimonianza di altissimo valore dell’arte bizantina medievale nel Salento*.

Nella parte del naos chiamata vima e riservata ai soli sacerdoti troviamo quest’immagine dell’Annunciazione. Fra le centinaia di scene che rappresentano un Angelo inginocchiato nel salutare la futura Madre di Dio sorpresa (per forza, immaginatevi…) e raccolta nell’ascolto, quell' affrescho del anno 959 è una cosa rarissima nella storia dell’arte. Di solito l’Angelo si trova a sinistra, e la giovane Maria collocata a destra. La disposizione dei luoghi come verranno dipinti nei secoli ulteriori presenta abitualmente le due figure separate da un dettaglio dell’architettura finta : una colonna, la soglia di una casa o di una stanza, oppure l’Angelo che rimane fuori in un giardinetto mentre la Vergine sta in una camera spesso riccamente arredata. Qua l’artista ha combinato le cose come glielo suggerivano non i luoghi dell’immaginazione ma le pareti che gli si trovavano davanti : una porzione di muro esigua a sinistra, un’altra più larga a destra, che vengono articolate in un modo tanto semplice quanto evidente.

Sistemare in un’area recinta la Madonna con un fuso in mano permetteva a Teofilatto (il cui nome appare sulla scritta) di dispiegare comodamente, con tanto di fruscio e di solennità, il Messaggero divino e le sue splendide ali : che Arcangelo sarebbe Gabriele con delle ali striminzite ? Così c’è anche spazio per rendere percepibile il movimento di chi sta per inginocchiarsi, ma non è oggi il caso di presentarsi con riservatezza (« Scusi signorina… se non disturbo… »). Lui sa già di cosa si tratta, e la linea che disegna la mano destra – con le dita unite per significare la preghiera - rende imperiale il gesto del braccio che porta lo sguardo verso il Pantocrator sul trono di maestà, in un altro spazio, quello dell’abside al centro, al cuore dell’intera scena.

Claire Bodson

* L'Ιstituto di Tecnologia dell'Informazione del CNRC (Conseil National de Recherches du Canada) ha sviluppato nel 2003 in collaborazione con l'Università di Lecce, un progetto che permette la rappresentazione virtuale tridimensionale della cripta.

La serenata

Quando un giovanotto ed una signorina si piacevano, l’uomo portava alla donna la serenata.
Trovava qualcuno che suonasse la fisarmonica ed il tamburello, riuniva i suoi amici e tutti insieme andavano sotto la finestra dove dormiva l’amata ed iniziavano a suonare e cantare.
Una di questa canzoni faceva:

Tua madre per te ha fatto voto.
Ha fatto voto a santa Maddalena,
Ché ti faccia mangiare miele e manna,
Così che restino gli occhi e le guance rosse;
gli occhi che non perdano lo splendore,
Migliore della luna nelle notti
in cui brilla maggiormente.

Successivamente c’erano i complimenti per la madre che l’ha generata così bella e pina di grazie.
Poi veniva messo avanti il padre che tutta la settimana andava a lavorare nel suo campo e anche nei campi d’altri proprietari, per portare a casa pane, olio e soldi per dare la dote alla bella figliola prima di sposarsi.
Tutto ciò avveniva in un situazione festoso e con grande gioia di tutto il vicinato, che era a dormire e allorché sentiva la serenata si svegliava dal sonno ed usciva in mezzo alla strada per ascoltare quelle belle canzoni. I più vecchi si sedevano sul limitare di casa, le donne per ascoltare, correvano con i figli più piccoli in strada.
Quando finivano di cantare, il padre della giovane usciva per strada con un boccale di vino, qualche dolcetto e qualche altra cosuccia; bevevano il vino, mangiavano le altre cose e dopo ciascuno ritornava alla propria casa a dormire.

Leonardo Antonio Giannuzzi

VITA NUOVA (2) IL LINGUAGGIO DELLE PIETRE

Giuseppe Castellano è conosciuto da tutti a Zollino, è un artista che sa manipolare la pietra, il ferro, il legno e tutti i materiali che capitano tra le sue mani. E' un autodidatta che riesce a realizzare opere che stupiscono per la loro originalità e bellezza.
Presso il Centro Polivalente per gli Anziani di Zollino, ha coinvolto due giovani maestri :Andrea
Aprile diplomato presso l'Accademia delle Belle Arti di Torino e Antonio Gemma diplomato presso l'Accademia delle Belle Arti di Lecce, ed ha iniziato a scolpire un enorme masso di “pietra leccese”, che si era fatto trasportare da una cava.
Ha invitato i frequentatori del centro per illustrare il suo progetto, invitandoli ad assistere al lavoro per cercare di apprendere.
Alterna il lavoro alle spiegazioni sull'uso degli strumenti di lavoro e su come incidere la materia.
E' felice Giuseppe quando le persone ascoltano con attenzione e interagiscono, manifestando interesse a capire ed apprendere.
Le persone vanno a curiosare e avrebbero voglia di scolpire, Giuseppe intuisce e le incoraggia a provare. Molti possono dire di aver contribuito a realizzare l'opera sia pure con un sol colpo di scalpello.
Tutti coloro che passano osservano, esprimono la loro opinione ed alcuni apprezzano e ringraziano per la partecipazione all'esperienza.
Il masso, piano piano, viene scolpito e comincia a manifestare una sagoma; si intravedono inizialmente la testa e il corpo: “comincia a parlare”, dicono le persone.
Scolpendo e scolpendo viene fuori l'anima della pietra e tutti possono vedere con i loro occhi, toccare, e ..................!
L'esperienza è iniziata nel mese di Aprile, siamo in Agosto e i maestri continuano freneticamente a lavorare tantissimo per portare a termine l'opera.
Allorquando il “Comitato degli iscritti” al Centro Polivalente per Anziani di Zollino ha chiesto a Giuseppe di realizzare un'esperienza di laboratorio con uomini e donne, lui ha risposto subito di sì.
Ha fatto trasportare un enorme parallelepipedo di pietra, alto circa due metri, lungo un metro e mezzo, e largo circa un metro, molto pesante.
Le persone osservavano incredule che potesse venir fuori da quel masso qualcosa di interessante, fino a quando non hanno visto fuoriuscire due corpi: una donna e un uomo, anziani, teneramente abbracciati.
Giuseppe, Andrea e Antonio hanno lavorato in perfetta sintonia, nonostante fosse la loro prima esperienza collettiva. Durante il lavoro di sgrossatura del masso e nelle fasi successive hanno prodotto una gran quantità di scarti, assemblando vari cumuli di residui. Una sola volta hanno fatto portar via ben quindici cariole di scarti. Anche sotto il sole cocente scrostavano la pietra fino a quando non ha finalmente rivelato l'anima, che loro avevano già intravisto: un uomo e una donna, anziani, abbracciati, con lo sguardo rivolto al futuro!
Francesco Chiga

Che non si rompa la macchina!

Oggi tutti andiamo a scuola e possiamo apprendere di tutto. Possiamo comprare libri quanti ne vogliamo e con pochi euro possiamo avere un’enciclopedia su DVD. E cosa dobbiamo dire poi della televisione: è sufficiente accendere per apprendere ciò che vuoi ed esche ciò che non ti interessa ed apprendere le novità là per là. Per non parlare poi di internet, pozzo smisurato: non c’è cosa, non esiste notizia che non si possa trovare; basta un niente per apprendere come fare. Mia moglie, che non conosce niente di computer ha appreso prestissimo, e devi vedere come si tiene grande con le sue amiche. Le dice: vai su “gogòl” immetti la parola che ti occorre e trovi ciò che vuoi. E veramente fa così quando le occorre qualcosa per il lavoro o cerca qualcosa di nuovo da cucinare.
Una volta non c’era niente di tutto ciò e a scuola erano pochi coloro che potevano andarci.
Questo mi diceva mio zio parlando di scuola:
Mio fratello maggiore non sapeva fare niente, a malapena negli ultimi tempi riusciva a mettere la firma.
Il medio fece la terza e non è cosa da niente, è, se non proprio come l’università di adesso, quasi.
Io non sono andato mai un giorno a scuola; non è che io sappia niente, però una cosa, anche se non la capisco molto, la leggo; non so scrivere bene, però scrivo. Che poi su le pale dovevi scrivere, sulle pale di ficodindia, la pala faceva da quaderno. Ricordo che la moltiplicazione non mi usciva mai, perché invece di iniziare da dietro, iniziavo davanti; una volta iniziai da qui, da dietro ed uscì, così imparai a fare le moltiplicazioni da solo.
Tutte le conoscenze ti venivano da ciò che ti raccontavano i più grandi e da quello che sapevi vedere quando osservavi ciò che il mondo mostra.
E sempre parlando con mio zio questo mi raccontava parlando di api. Ascoltatelo.

Zi: noi le avevamo le api, le avevamo qui sopra, sopra il terrazzo, che poi gli facevano tutte le lenzuola gialle.
Gi: perché?
Zi: quelli non raccolgono quella polvere che c’è dentro i fiori, il polline, come si chiama diversamente? Quelli la raccolgono, tu sai che la raccolgono, vero?
Gi: per mangiare, no!
ZI: no, là non mangiano i grandi, essi mangiano miele, non mangiano fiori. Quello non è per far mangiare le mamme, i grandi, le api; quello lo mettono dentro che ci sono i piccolini, affinché si nutrano.
Quindi lo raccolgono tra le zampette, facendo delle pallottoline, poi quando ritornano lì (all’alveare) lo devono nuovamente tirare piano piano e lo devono mettere lì dentro, che lì dentro ci sono le larvette. Le hai viste?
Gi: no.
Zi: no! Lì dentro ci sono le uova che fa la mamma, da lì dentro escono le larvette, che piano piano diventano grandi, e mangiano quella polvere che mettono le api. Lì non è la madre che comanda, comanda la famiglia. Non è la madre che fa quelle diverse (tante) cose, che lì si devono fare tante cose.
Quando devono fare (predisporre per) la mamma devono fare già il buco diverso, la cella. Devono fare una cosa, uno spuntone così lungo, che sta da parte, in una estremità, oppure alcune volte lo fanno nel mezzo, nel pettine. La fanno però sempre più grande, perché là la madre è sempre più grande, è più lunga. E lì dentro non mettono polvere. Non è che la mamma nasce mamma perché ha fatto l’uovo di mamma, nasce mamma con ciò che mettono i figli, quelle, operaie si chiamano, ma figlie di quella sono. Lì dentro non mettono polvere, mettono ciò che si chiama pappa reale.
Quella non è che c’è dappertutto lì dentro, la mettono soltanto dentro quei buchi grandi dove devono nascere le regine.
Quella soltanto è pappa reale, la dove nascono quelli che devono lavorare mettono quella polvere che si trova nei fiori.
Qualche volta nascono tutti maschi, che non sono i fuchi. Allora lì la famiglia viene (va) in fallimento. Quelli o si ammazzano o muoiono lentamente, perché non c’è nessuno che lavori. Quelli non lavorano, non vanno a trovare da mangiare, a fare provviste, stanno sempre a darsi botte, per ammazzarsi. Ma sono poche le volte che succede questa cosa. Gli altri invece escono dagli alveari, fanno il miele, fanno la cera, fanno tutte le cose che occorrono. Raccolgono quel succo di fiore che poi diventa miele. Non è che lo cagano dal sedere, lo rigurgitano nuovamente dalla bocca. Hanno una cosa qui sotto e la riempiono di quel liquido che poi dopo giorni matura e diventa miele. Quello tu non lo vedi quando lo trasportano, perché lo tengono nell’interno, come i piccioni, come gli uccelli che lo tengono qui vicino, poi lo rigurgitano di nuovo e lo mettono dentro i buchi.
Gi: allora abbiamo..
Zi: quello dei piedi è quello che mettono da mangiare a quei vermicelli che poi diventeranno api, il succo di fiori che poi diventa miele e la pappa reale che io adesso non so da dove lo raccolgano, come fanno a trovarlo, vedi che è una cosa come latte che mettono nella cella, lì dove deve nascere la regina.
Gi: e le lenzuola?
Zi: le robe poi dovevamo toglierle, perché quando faceva vento venivano stanchi, specialmente che stavano sopra, si appoggiavano lì e facevano tutta la biancheria gialla, perché avevano quei piedi pieni di fiori (polline) e la sporcavano no!
Gi: come fai a sapere queste cose?
Zi: io non è che ho appreso queste cose perché me le abbiano dette, ma come ho appreso tante cose da solo, ho imparato anche ciò che fanno le api.
Una volta che non esisteva niente, né giornali, né televisione, né libri, né internet, quanto valeva il sapere della persone anziane, quanto era bello e dolce il racconto del nonno. Adesso tutto questo non serve più a niente. L’intelligenza, i saperi delle persone di fronte ad internet, di fronte alla televisione si perdono, non servono. Dietro non si può tornare, è da stupido pensare questo, ma dimenticare che sei, da dove vieni, chiudere col passato, recidere le radici, vendere l’identità al dio della modernità neanche è cosa buona.
Che non si rompa mai la macchina!

Giuseppe De Pascalis

Il malocchio

Cos’è il malocchio?
Il malocchio, dicono, viene con uno sguardo insieme ad un pensiero che ti mandano le donne che hanno la potenza di fare male alle persone, agli animali e agli alberi, tuttavia coloro che fanno il malocchio non sanno che possono far del male. E’ sufficiente che ammirino qualcosa o qualche bambino che sia bello e grassottello o che invidino qualche persona perché gli mandino il malocchio.
È una delle più antiche superstizioni del mondo a cui la gente crede da migliaia di anni. Coloro che credono appendo davanti alla porta di casa una staffa di cavallo insieme ad un aglio per potersi proteggere dal malocchio. Dicono che sono poche le persone nate con la potenza di gettare il malocchio. Così scrisse Plutarco (46-120 dc) nel suo libro Perì katà ton vaskènin legòmenon ce vàskanon èchi ofthalmòn” e Virgilio (70 –19 ac) disse: :”nescio quis teneros oculos mihi fascinat agnum“.
Alcuni anni addietro si credeva che il malocchio lo possedessero le donne anziane con gli occhi verdi o azzurri. Nei piccoli villaggi, in Grecia, quando riconoscono una donna che è una iettatrice fuggono lontano da lei senza guardarla negli occhi. Col malocchio la persona si ammala, fa sbadigli, può avere vomiti, diarrea e gli viene il mal di testa; il bambino piccolo piange ed ha caldo; gli alberi si spogliano dalle foglie e gli cadano i frutti. Nel Salento ed in altri luoghi d’Italia la gente, che ancora oggi ci crede, porta con se amuleti come cornetti fatti di argento o di oro oppure cornetti di corallo. Uomini e donne gli appendono al petto per tenere lontano il malocchio.
“Vàscamma” è una parola vecchia greca ed in latino e detto “Fascinum”, ed in italiano vuol dire “affascinare” ed anche malocchio. Nell'isola di Rodi ed in tutta la Grecia dove il “Vàscama “è detto anche “Ammàtiasma” hanno, come in medio oriente, tutto di colore azzurro: la pietra dell’anello, la perla della catenina e ciò che richiama il segno dell’occhio e che oggi vendono in tutti i negozi turistici. Coloro che hanno addosso il colore azzurro sono aiutati a non prendere il malocchio.
Hanno pure il “filahtò*”: un piccolo guanciale pieno con cose contro il malocchio. Le persone mettono dentro preghiere e una croce, i musulmani e gli ebrei che credono pure al malocchio, mettono le loro cose. Questo guancialetto viene appeso ai vecchi e ai bambini piccoli che il malocchio li prende più di frequente. Per questo in Grecia ed in medio oriente quando nasceva il bambino doveva stare quaranta giorni chiuso in casa prima di poter essere veduto dalla gente, perché la mamma aveva paura che lo ammaliassero. Dopo i quaranta giorni portava il bambino alla chiesa perché il prete lo benedisse e dopo lo poteva guardare la gente. Ogni qualvolta che le persone guardavano il bambino dovevano fare finta di sputare e dire “ftu, ftu, ftu, che non venga ammaliato”, che è il “filàfsi” (benedica). Ci sono ancora donne che conoscono le parole e sanno togliere il malocchio. Questo fanno ancora in Grecia ed in alcuni luoghi del Salento. Prima si accertano che sia veramente malocchio: riempiono una bacinella d’acqua, ungono il ditino di olio e ci fanno cadere dentro tre gocce per due volte, se le gocce spariscono non c’è fattura, se le gocce restano e diventano come occhi, la fattura c’è. Alcuni anni addietro era necessario chiamare l’ultima donna che aveva visto l’ammaliato, le davano un rametto d’olivo benedetto il giorno delle Palme e doveva dire: io ti ho ammaliato ed io ti tolgo il malocchio, quello che ho detto che non sia ben detto”. La mia amica di Calimera mi ha riferito che in Salento per togliere il malocchio riempiono una bacinella con dell’acqua, prendono nove chicchi di grano e ogni volta che vi gettavano dentro il chicco facevano il segno della croce e dicevano: ”doi occhi te ndocchiara, doi santi t’annu iutare”. Se molti chicchi restavano dritti sopra l’acqua, volava dire che il malocchio c’era ancora. Se tutti i chicchi scendevano giù nella bacinella non c’era malocchio. In Grecia per togliere il malocchio facevano così: su di una tegola accendevano dei carboni, mettevano sette foglie d’ulivo che erano state benedette dal prete il giorno delle palme e facevano investire dal fumo l’ammaliato pregando Dio così:
“Quanti occhi ti guardano, tanti santi ti aiutano..
Cristo vince e i mali disperde e tutto aiuta.
Ogni cattivo pensiero, e occhio, tolga da dosso a te…
E con tutto ciò si toglie il malocchio…

Theonia Diakidis